Considerate le numerose richieste che stanno pervenendo al nostro Studio, vi riportiamo le seguenti Faq, nella speranza di poter dare risposta i vostri quesiti:
COME SI TRATTA L’ASSENZA DI UN LAVORATORE PER VACCINARSI CONTRO IL COVID?
In assenza di specifica previsione di legge o contrattuale, il dipendente che si sottopone alla vaccinazione anti Covid deve utilizzare ferie o permessi annui per preservare il proprio trattamento economico.
Nonostante l’intensificazione della campagna vaccinale, non è stata prevista, infatti, una norma di carattere generale che fornisca una specifica tutela in favore del lavoratore costretto ad assentarsi dal lavoro per sottoporsi alla profilassi di rito.
COME SI TRATTA L’ASSENZA DI UN LAVORATORE PER MALORE SUCCESSIVO ALLA VACCINAZIONE COVID?
Si ritiene che il lavoratore impossibilitato a prestare attività lavorativa dopo la somministrazione del vaccino anti-Covid dovrà recarsi dal proprio medico di base per farsi rilasciare idoneo certificato di malattia.
POSSO ASSUMERE UN LAVORATORE IN CIG?
Il lavoratore in Cassa Integrazione può essere assunto da un altro datore di lavoro, ma solo a tempo determinato, mantenendo nel contempo in essere entrambi i rapporti di lavoro. Occorre però distinguere 2 casi:
se la persona si impiega in un nuovo lavoro subordinato a tempo pieno e determinato, perde il diritto a percepire l’indennità di CIG.
- Viceversa è pienamente legittima la coesistenza di una nuova attività lavorativa intrapresa in ore della giornata o in giorni diversi dalle ore o dai giorni in cui si collocava la prestazione lavorativa sospesa. Si pensi ad esempio a un operaio dell'industria, posto in cassa integrazione, che "arrotonda" l'indennità impiegandosi nelle ore serali in un ristorante come cameriere per poche ore al giorno. In questo caso la cumulabilità, come peraltro precisato dall'INPS, sarà totale purché nel rispetto delle regole che disciplinano la durata massima dell’orario di lavoro.
POSSO CHIEDERE AI LAVORATORI DI DIFFERIRE AL DI FUORI DEL MESE DI AGOSTO IL GODIMENTO DELLE FERIE?
La risposta è affermativa, ma per prevenire eventuali contenziosi, riteniamo opportuno invitarvi a stabilire preventivamente alcune regole.
Ormai tutti i contratti Collettivi, prevedono che le ferie vadano godute, “compatibilmente con le esigenze produttive aziendali”. Tuttavia, i Contratti prevedono anche che il datore di lavoro debba comunicare ai lavoratori il periodo di chiusura per le ferie collettive.
Pertanto, se un’Azienda prevede che in agosto potrebbe avere necessità di tutto o parte del personale per soddisfare degli ordini della propria Clientela, è necessario preavvisare i lavoratori, al fine evitare che questi abbiano già effettuato le prenotazioni (cosa abbastanza improbabile, vista la situazione sanitaria, ma non impossibile).
POSSO PRETENDERE CHE IL LAVORATORE, NEL PERIODO FERIALE, EVITI DI ASSUMERE ATTEGGIAMENTI CHE POSSANO METTERE A RISCHIO LA PROPRIA SALUTE, COME AD ESEMPIO RECARSI IN UN PAESE CON ELEVATO RISCHIO DI CONTAGIO?
La risposta è affermativa, tuttavia occorre fare il seguente approfondimento:
L’argomento è stato affrontato dalla Corte di Cassazione, che come è stato affermato dalla Sez. lavoro con sentenza del 25 gennaio 2011, n. 1699, ha affermato: “ferma restando l’insindacabilità della scelta del lavoratore di impiegare le ferie nel modo che ritiene più opportuno, a monte operano i doveri di buona fede e correttezza che impongono di tenere una condotta conforme all’interesse del datore di lavoro alla prestazione lavorativa”, al punto che “se l’assenza per malattia (contratta durante le ferie) è dovuta a una condotta volontaria del medesimo, il licenziamento può essere legittimo”.
In sostanza, se da un lato è pacifico che la contrazione di una malattia durante il periodo di godimento delle ferie, non è di per sé motivo che giustifica il licenziamento, tale garanzia non può però ritenersi estesa sino a tutelare anche i comportamenti irresponsabili da parte del lavoratore, qualora i rischi, risultino altamente probabili e consapevolmente assunti
COME SI DEVE COMPORTARE IL DATORE DI LAVORO QUANDO UN DIPENDENTE DEBBA RIENTRARE A LAVORO DOPO AVERE CONTRATTO IL COVID?
Tutti i dipendenti che abbiano riscontrato positività al SARS-CoV-2 oppure che siano stati contatti “stretti” di soggetti che abbiano riscontrato positività al SARS-CoV-2, prima di far rientro in Azienda devono rispettare le regole sottoindicate a seconda della casistica nella quale rientrano:
Casi positivi asintomatici
Le persone asintomatiche risultate positive al di SARS-CoV-2 possono rientrare in azienda dopo un periodo di isolamento di almeno 10 giorni dalla comparsa della positività, al termine del quale risulti eseguito un test molecolare con risultato negativo (10 giorni + test).
Casi positivi sintomatici
Le persone sintomatiche risultate positive al SARS-CoV-2 possono rientrare in azienda dopo un periodo i isolamento di almeno 10 giorni dalla comparsa dei sintomi (non considerando anosmia e ageusia/disgeusia che possono avere prolungata persistenza nel tempo) accompagnato da un test molecolare con riscontro negativo eseguito dopo almeno 3 giorni senza sintomi (10 giorni, di cui almeno 3 giorni senza sintomi + test).
Casi positivi a lungo termine
Le persone che, pur non presentando più sintomi, continuano a risultare positive al test molecolare per SARS-CoV-2, in caso di assenza di sintomatologia (fatta eccezione per ageusia/disgeusia e anosmia 4 che possono perdurare per diverso tempo dopo la guarigione) da almeno una settimana, potranno interrompere l’isolamento, dopo 21 giorni dalla comparsa dei sintomi e rientrare in azienda solo dopo la presentazione di un test antigenico o molecolare negativo.
Contatti stretti asintomatici
I contatti stretti di casi con infezione da SARS-CoV-2 confermati e identificati dalle autorità sanitarie, devono osservare un periodo di quarantena di 10 giorni dall’ultima esposizione con un test antigenico o molecolare negativo effettuato il decimo giorno.
POSSO OBBLIGARE UN DIPENDENTE A VACCINARSI DAL COVID-19?
Il D.L. 44/2021 impone l’obbligo di vaccinazione al solo personale operante nell'ambito sanitario, definendo altresì le conseguenze del mancato rispetto di questo obbligo nei confronti dei lavoratori.
Tutte le altre categorie non sono state coinvolte da questo obbligo e per la stragrande maggioranza dei datori di lavoro si apre un problema non indifferente: contemperare l’obbligo di tutela della sicurezza nel luogo di lavoro con il diritto dei lavoratori, riconosciuto dall’art. 32 della Costituzione, di poter rifiutare di sottoporsi a trattamenti sanitari.
Il garante per la protezione dei dati personali sul proprio sito di FAQ si è inoltre espresso sull’argomento affermando, in sintesi:
- Il datore di lavoro non può chiedere ai propri dipendenti di fornire informazioni sul proprio stato vaccinale o copia di documenti che comprovino l’avvenuta vaccinazione anti Covid 19.
- il medico competente non può comunicare al datore di lavoro i nominativi dei dipendenti vaccinati”; e aggiunge: “solo il medico competente può infatti trattare i dati sanitari dei lavoratori e tra questi, se del caso, le informazioni relative alla vaccinazione, nell’ambito della sorveglianza sanitaria e in sede di verifica dell’idoneità alla mansione specifica (…)”.
Fatte le premesse di cui sopra, occorre innanzitutto distinguere due differenti situazioni:
1) Aziende esposte a rischi tutelabili con le semplici rigorose osservanze delle misure previste dai protocolli.
2) Aziende maggiormente esposte al rischio di contagio e dove quest'ultimo potrebbe integrare un infortunio sul lavoro, in quanto rischio specifico dell'attività, oppure per la presenza di lavoratori maggiormente esposti al rischio di contagio perché esposti al contatto con terzi come i clienti, i fornitori, il pubblico, gli utenti ecc., oppure personale soggetto al rischio di contagio dalle cosiddette varianti.
Mentre nel primo caso la puntuale, precisa, rigorosa adozione e imposizione degli ormai noti strumenti di protezione e prevenzione stabiliti dagli attuali ed eventualmente dai futuri protocolli sanitari può ritenersi sufficiente all’adempimento dell'obbligo del datore di lavoro di proteggere i lavoratori, la stessa cosa non può dirsi nel secondo caso, nel quale ci si troverebbe in un contesto lavorativo in cui essere vaccinato diventa un requisito essenziale per operare in sicurezza, sia per il lavoratore stesso, sia per i colleghi di lavoro.
Si pone quindi, per il datore di lavoro, l’obbligo di adozione di strumenti che vanno oltre la semplice adozione dei protocolli anti covid, decisioni nelle quali è imprescindibile il giudizio del medico competente, il quale potrà suggerire di adibire il lavoratore, ove possibile, ad altre mansioni, oppure al lavoro da remoto oppure, infine, ne potrà dichiarare la temporanea impossibilità allo svolgimento della mansione.
In quest’ultimo caso appare del tutto impercorribile la soluzione estrema del licenziamento, sia in virtù del blocco dei licenziamenti stabilito dalla Legge, sia perché l’impossibilità allo svolgimento della mansione appare legato alla particolare situazione sanitaria e quindi del tutto transitoria.
Non resterebbe altra soluzione che la sospensione del rapporto di lavoro mediante l’utilizzo dei vari strumenti sospensivi, quali il ricorso allo smart working, agli ammortizzatori sociali, l’utilizzo delle ferie oppure la sospensione del rapporto di lavoro senza decorrenza della retribuzione.
In definitiva, solo il medico competente può fare le necessarie valutazioni per trovare un punto di mediazione tra obbligo di tutela della salute ed esigenze produttive e organizzative del datore di lavoro e di conseguenza dichiarare l’obbligo vaccinale quale condizione imprescindibile per lo svolgimento dell’attività lavorativa, senza tuttavia poter imporre la somministrazione del vaccino, ma solo la modifica delle mansioni di quei lavoratori che si rifiutino di vaccinarsi.
Senza voler pretendere di esaurire argomenti così complessi, il nostro studio ha predisposto una bozza di comunicazione da inviare ai Vostri dipendenti (all.1) siamo a disposizione per eventuali approfondimenti.
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